Tom Dixon: la materia come linguaggio, il design come narrazione

9 Aprile 2025

Tom Dixon Portrait

Tom Dixon si racconta con generosità e lucidità: il suo rapporto con i materiali, l’importanza di saper improvvisare e “reinventare”, l’influenza del mondo musicale, ma anche la visione del Salone del Mobile come palcoscenico mutevole del design.

Inconfondibile, eclettico, radicale: Tom Dixon è una delle figure più emblematiche del design contemporaneo. Autodidatta, spirito libero e instancabile sperimentatore, ha saputo trasformare la materia in linguaggio espressivo e il gesto progettuale in racconto.

Dalla celebre S-Chair—passata dai saloni underground di Londra alle collezioni permanenti dei musei internazionali—fino alle più recenti collezioni di arredo, illuminazione e decorazioni, il suo universo creativo non smette di evolversi sempre in modi inaspettati e geniali.

Tra passioni, ossessioni e collaborazioni inedite, emerge il ritratto di un designer che ha fatto dell’indipendenza intellettuale e della sperimentazione il cuore pulsante del suo lavoro. Un dialogo ricco di spunti, che getta uno sguardo sul futuro del progetto senza perdere il contatto con le sue radici più autentiche.

Partiamo dalle tue prime ispirazioni, la tua carriera nel design è stata tutt’altro che convenzionale: dagli esordi sperimentando con materiali industriali alla guida di uno studio di design riconosciuto a livello internazionale. Raccontaci come è iniziato il tuo percorso nel mondo del design.

Oh, è una lunga storia. Non è facile da raccontare, perché è stata più un’evoluzione sull’onda di una serie di scelte prese nel tempo. Ho iniziato a creare oggetti principalmente per divertimento, e poi le persone hanno cominciato a comprarli. In questo senso, è stato tutto piuttosto semplice.


Ciò che ha davvero dato il via a tutto è stato imparare a saldare—non perché volessi diventare un designer o entrare nel mondo della produzione, ma perché avevo bisogno di riparare le mie auto e moto d’epoca. Ma appena ho imparato, ho scoperto che la saldatura era un modo incredibilmente rapido e potente per realizzare oggetti. Mi permetteva di creare oggetti solidi, tangibili, in poco tempo, e ne sono rimasto completamente affascinato.


Mentre mi esercitavo, ho cominciato naturalmente a realizzare oggetti funzionali—sedie, lampade—e le persone hanno iniziato a  mostrarsi interessate alle mie creazioni. Così è avvenuta una sorta di transizione invisibile: sono passato dal lavorare nel mondo della musica e dei nightclub, che all’epoca era il mio lavoro, al creare e vendere oggetti.

C’è stato un materiale di cui ti sei innamorato in particolare agli inizi? E come si è evoluto nel tempo il tuo rapporto con la materia?

Beh, probabilmente ancor prima di tutto questo, quando ero a scuola, l’unico laboratorio in cui mi sentivo davvero a mio agio era quello di ceramica. La ceramica è un processo completamente guidato dal materiale: si parte da una massa informe e fangosa, e in poco tempo si trasforma in qualcosa che ha una forma. Poi la cuoci, la smalti, la cuoci di nuovo. È un processo di trasformazione, e credo che questo abbia influenzato profondamente il mio modo di vedere i materiali.


Quella è stata la mia prima vera esperienza nel creare oggetti, e col senno di poi è stata molto formativa. La ceramica ti permette di realizzare sia sculture che oggetti funzionali, e io ho sempre preferito quest’ultima dimensione. In effetti, quando avevo circa 14 anni, realizzavo e vendevo pipe per cannabis ai miei compagni di scuola—quello è stato, a tutti gli effetti, il mio primo business. Quindi fin dall’inizio avevo un’attitudine imprenditoriale, e mi affascinava quel lato transazionale del creare. Trovavo più interessante realizzare qualcosa che avesse una funzione, piuttosto che un oggetto puramente decorativo.


Poi sono passato alla musica e ad altri interessi, ma è stato solo quando ho scoperto la saldatura che ho trovato una tecnica e un materiale che mi permettevano di essere davvero sperimentale. Il metallo è molto flessibile. Se sbagli, puoi tagliarlo, piegarlo di nuovo, risaldarlo—nessun problema. Non si può dire lo stesso del legno o della ceramica. L’acciaio ha una sorta di elasticità, una versatilità e una forza, e poi c’è il modo in cui lo plasmi—col fuoco—che mi ha sempre affascinato.

Tom Dixon Portrait


Quindi l’acciaio è stata la mia grande rivelazione. È stato il materiale che mi ha davvero permesso di trasformare le idee in oggetti funzionali che la gente avrebbe acquistato. Ma il mio rapporto con i materiali continua a evolversi. Mi ossessiono continuamente con materiali diversi. Il mio processo creativo consiste quasi sempre nell’immergermi in una materia, esplorarlo a fondo e cercando di trarne risvolti che magari altri non hanno visto.


Ultimamente, ad esempio, sono molto affascinato dal vetro. Sto iniziando a esplorare i tessuti, stiamo lavorando con il sughero, e naturalmente continuiamo a usare il legno—e siamo persino tornati di nuovo alla ceramica. E per quanto riguarda i metalli, la mia attuale ossessione è l’alluminio.

C’è un materiale che non hai ancora esplorato e con cui ti piacerebbe lavorare?

Sì, in realtà sto sperimentando parecchio ultimamente. Come accennavo, ho iniziato a lavorare con il sughero, e anche un po’ con il micelio. C’è un interesse crescente verso i funghi come materiale—qualcosa che può essere coltivato e manipolato in modo molto diverso rispetto ai materiali tradizionali. Molti stanno esplorando questo campo in questo momento.

Anch’io sto portando avanti alcuni esperimenti, in particolare con materiali più naturali. Non si tratta necessariamente di materiali nuovi, ma piuttosto di elementi che esistono da sempre e che oggi vengono utilizzati o trasformati in modi inaspettati e innovativi.

Ci sono stati momenti, incontri o punti di riferimento chiave nei tuoi primi anni di attività che hanno contribuito a formare il tuo approccio creativo? 

Alcuni, sapendo che facevo parte del mondo della musica, mi chiedono se questo abbia influenzato il mio lavoro nel design. Ma non è stata tanto la musica in sé, quanto piuttosto la natura dell’industria musicale in Inghilterra.

Tom Dixon Stone Portable
Tom Dixon Flash Tavolino Rettangolare
Tom Dixon Fat Modular Sofa
Tom Dixon Melt Cone Fat
Tom Dixon Melt Surface
Tom Dixon Flash Tavolino Quadrato
Tom Dixon Cloud
Tom Dixon Mirror Ball


In quel contesto, impari a suonare i tuoi strumenti, scrivi i tuoi brani, gestisci la tua produzione creativa—e poi trasformi tutto questo in un business producendo dischi o organizzando i tuoi concerti. Quell’attitudine al “fai da te” mi è rimasta addosso, e l’ho portata nel mio approccio al design. All’inizio non sentivo il bisogno di essere un esperto né di far parte di una struttura formale o convenzionale. Mi sentivo libero di creare secondo le mie regole, e quel senso di indipendenza proviene direttamente dalla mia esperienza nella musica. 

Far parte di quel mondo—prima musicale, poi quello dei club—era profondamente imprenditoriale. Dovevi crearti le tue opportunità. Guadagnavi grazie alle tue idee, portandole avanti in autonomia. Quella mentalità ha avuto una grande influenza su di me sin dall’inizio.
Un altro momento chiave è stato quando ho iniziato a lavorare per Habitat, che all’epoca era una grande azienda di prodotti per la casa di proprietà di IKEA. È lì che sono entrato davvero nel mondo più “istituzionale” del design e dell’arredo. Ho avuto l’opportunità di viaggiare in tutto il mondo, visitando l’India, la Polonia, il Vietnam, le Filippine, l’Indonesia e l’Italia. Questo mi ha aperto le porte al mondo del business su larga scala: retail, branding, marketing, cataloghi—tutto.


Incontrare Giulio Cappellini e collaborare con un’azienda italiana è stato poi un altro momento decisivo. Le aziende italiane credevano veramente nel design, in un modo in cui quelle britanniche, all’epoca, non facevano. Quella passione per il progetto, e il modo in cui veniva vissuto in Italia, è stato per me incredibilmente stimolante.

Proprio la S-Chair disegnata nel 1991 per Cappellini è una delle tue creazioni più iconiche. Guardando oggi quel progetto, che relazione ha con il tuo lavoro attuale?

Penso che ciò che rende interessante quella sedia sia il fatto che mi ha accompagnato attraverso tutte le fasi della mia carriera. La prima versione l’ho realizzata nel mio studio, usando oggetti trovati—rottami metallici, gomma riciclata dall’industria automobilistica. Poi l’ho rifatta utilizzando materiali naturali, e quella versione ha avuto un po’ più di successo. È stata la mia prima sedia prodotta in serie.

Cappellini S-Chair

Successivamente, con Cappellini, si è evoluta fino a diventare un oggetto di lusso, ed è arrivata persino al Museum of Modern Art di New York. È un pezzo che mi ha davvero seguito nel tempo.

Per me rappresenta anche il mio modo di lavorare, che è sempre stato diretto, a stretto contatto con i materiali, spesso imparando per tentativi ed errori. La primissima versione, in realtà, l’ho realizzata per un amico che aveva un salone di parrucchiere. Era una sedia girevole—abbastanza brutta, a dire il vero—ma gliel’ho venduta, e l’ha usata nel suo salone per parecchio tempo. Poi ne ho fatta un’altra versione, e poi un’altra ancora.

Questo processo iterativo e manuale è ancora oggi il mio modo preferito di lavorare. Preferisco creare prototipi in scala reale piuttosto che passare subito al disegno digitale. Che sia cartone, filo metallico o altro, voglio vedere l’oggetto nella sua dimensione reale il prima possibile, per capire come occupa lo spazio.

Infatti, spesso devo letteralmente staccare i designer dagli schermi e portarli in laboratorio per realizzare versioni fisiche. Così evitiamo molti errori già nelle prime fasi.

Tom Dixon al Salone del Mobile 2025: cosa puoi dirci e come si è evoluto il modo di interpretare e vivere questo evento nel panorama del design contemporaneo?

Beh, il Salone è ancora assolutamente straordinario. Un tempo era l’occasione in cui tenevamo ogni dettaglio segreto fino all’ultimo momento, per poi svelare tutto a Milano. Ma le cose sono un po’ cambiate—oggi trattiamo Milano più come una sintesi del lavoro di un intero anno, piuttosto che come un grande evento di lancio unico.
Ci sono diversi motivi per questo. Uno è legato alla tempistica. Quest’anno abbiamo lavorato molto sull’arredo per esterni, e quando arriva il Salone è già primavera—troppo tardi per lanciare collezioni outdoor, perché tutti hanno già fatto i loro acquisti.


Così abbiamo presentato in anteprima la nostra nuova linea outdoor in alluminio, chiamata Groove, in luoghi più soleggiati come l’Australia, il Marocco e la Thailandia. Sono stato in giro a promuoverla, e sebbene Milano sarà la sua prima presentazione europea, la collezione è già in circolazione da qualche mese.

Tom Dixon Groove
Tom Dixon Groove Collection


Presenteremo anche nuovi prodotti d’illuminazione—pezzi più morbidi, più funzionali. Uno si chiama Pose. Abbiamo già rilasciato alcune immagini.

Tom Dixon Pose Portable
Tom Dixon Pose Task

Un altro si chiama Soft, che—come suggerisce il nome—è meno metallico, con una componente tessile più marcata, e una sensazione generale più delicata.
E poi ci sono i divani. Abbiamo iniziato quel progetto circa otto mesi fa, e anche se saranno una novità per Milano, non saranno del tutto inediti.


Naturalmente Milano resta una piattaforma incredibilmente importante, ma è anche diventata molto più competitiva—con brand giganteschi come Moncler, Mercedes, Google, Hermès.
Per questo stiamo valutando di adottare un approccio leggermente diverso: forse “andare in grande” ogni due anni invece che ogni anno—un po’ come fanno già molte aziende italiane.

Il tuo studio ha collaborato a progetti in molteplici settori—dall’hospitality alla tecnologia. Ci sono collaborazioni inaspettate all’orizzonte?

Sì, al momento stiamo lavorando con un’azienda di auto elettriche, che è decisamente al di fuori del nostro territorio abituale. Stiamo esplorando diverse categorie che, normalmente, non distribuiremmo direttamente. C’è un limite realistico a ciò che possiamo gestire internamente—già ci occupiamo di arredi, illuminazione, accessori, persino profumi—e oltre un certo punto diventa difficile essere davvero esperti in ogni ambito, soprattutto quando si tratta di sviluppo, produzione e distribuzione.
L’anno scorso, ad esempio, abbiamo portato a termine un importante progetto con VitrA, un’azienda turca specializzata in arredo bagno. È stata una collaborazione molto interessante, perché pur restando nell’ambito della casa e del design d’interni, si trattava di una categoria di prodotto che non avremmo gestito direttamente.
Al momento siamo in trattativa con altre aziende, ma non posso ancora rivelare nulla di concreto.

Oggi viviamo in un mondo sempre più saturo—tra tendenze che cambiano rapidamente, esperienze digitali e continui mutamenti. Come fai in questo contesto a garantire che i tuoi progetti mantengano un senso di atemporalità?

Hai perfettamente ragione—diventa sempre più difficile creare oggetti che siano al tempo stesso unici e capaci di resistere al tempo. Per fortuna ho avuto modo di fare molta pratica, e con il tempo sono diventato più bravo a intuire ciò che ha davvero il potenziale per durare.

A volte mi capita di vedere alcuni dei miei pezzi ricomparire—nei mercatini dell’antiquariato a Milano o a Londra, ad esempio—accanto a mobili del XIX secolo. È affascinante assistere a quel momento in cui il tuo lavoro inizia a essere percepito come vintage, come qualcosa che si guadagna una seconda vita.

Credo che la chiave per essere davvero senza tempo sia fare qualcosa di autenticamente originale. Quando crei qualcosa di veramente nuovo—quando sei il primo a definire una certa tipologia di prodotto—quella cosa tende a durare nel tempo.

Molto di ciò che facciamo consiste anche nel togliere il superfluo. Evitiamo le decorazioni superficiali e gli elementi puramente ornamentali. Preferiamo concentrarci sull’essenza dell’oggetto, cercando di mantenerlo chiaro, funzionale e privo di distrazioni.

Un’ultima domanda: se potessi dare un consiglio a un giovane designer che desidera superare i confini del progetto, quale sarebbe?

In realtà do quasi sempre lo stesso consiglio ai giovani designer, e si riassume in due aspetti fondamentali.


Il primo è: fare pratica. Credo che, soprattutto all’università o nei college, si finisca spesso per realizzare solo pochi progetti per semestre, e questo può essere molto limitante. Ma come per la musica o qualsiasi altra disciplina, si migliora solo esercitandosi continuamente. Bisogna progettare ogni giorno, lavorare su tante idee e non affezionarsi troppo a nessuna di esse. L’elevata produttività e la costanza sono elementi chiave per diventare un designer migliore.


Il secondo punto riguarda la capacità di mantenere intatta la propria unicità. In un mondo sommerso da rumore visivo e influenze esterne senza fine, è più importante che mai individuare ciò che ti distingue—quello che ti rende speciale—ed esprimerlo con chiarezza, sia nel lavoro che nella comunicazione.
In un certo senso oggi è più facile, perché abbiamo a disposizione moltissimi strumenti per condividere immagini e idee—strumenti che prima non esistevano. Ma è anche più difficile, perché ci sono molte più persone che lo fanno. Quindi trovare un punto di vista autentico—un’attitudine riconoscibile e solo tua—è assolutamente essenziale.